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Petrarca, Francesco - Rime sparse » Varchi, Benedetto L'Hercolano - p. 941

Varchi, Benedetto

L'Hercolano


Che vuole significare altro questa metafora, bagnato d'aceto italiano, se
non 'tocco e morso dall'acutezza del parlare italiano'? Imparatelo
ancora da Ovvidio, il quale scrisse nel quinto libro di quella opera che
egli intitolò De tristibus, cioè 'delle cose meste e maninconose':
Ne tamen Ausoniae perdam commercia linguae,
Et fiat patrio vox mea tuta sono,
Ipse loquor mecum
etc.

Chiamavasi ancora appresso i medesimi poeti romulea da Romulo,
come la greca cecropia da Cecrope, re degli Ateniesi, e argolica dalla
città d'Argo. Nè voglio lasciare di dire che i Romani, servendosi
nelle loro guerre de' Latini, gli chiamavano non sottoposti, ma compa-
gni; laonde non fu gran fatto che per mantenetegli amici accomunassero
loro, come già fecero l'imperio, il nome della lingua.
Conte. Io ho letto in non so chi de' vostri che i Romani in un certo
modo sforzavano i lor sudditi, per ampliare la sua lingua, a favellare
latinamente.
Varchi. Anzi, niuna delle terre suddite poteva latinamente favel-
lare, a cui ciò per privilegio e speziale grazia stato conceduto non fusse.
Udite le parole di Tito Livio nel quarantesimo libro: Cumanis eo
anno petentibus permissum ut publice Latine loquerentur, et praeconibus
Latine vendendi ius esset
. Cotesto che voi dite haver letto fu poi
quando la lingua andava in declinazione e al tempo degli imperadori; e
perché sappiate, tenevano gli antichi così greci come latini la cosa delle
lingue in maggior pregio e più conto ne facevano che hoggi per avventu-
ra non si crederrebbe. A Pindaro per lo havere egli in una sua canzo-
ne lodato incidentemente la città d'Atene fu da gli Ateniesi, oltra molti e


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