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Plato - Symposium » Varchi, Benedetto L'Hercolano - p. 833

Varchi, Benedetto

L'Hercolano


Conte. Era Cicerone huomo da burlare?
Varchi. Era, anzi non fu mai huomo che burlasse nè più di lui nè
meglio; non penso già che dicesse questo per burla.
Conte. O perché dunque, se ciò non era vero, disse egli che
vero fusse?
Varchi. Perché, se nol sapeste, la lingua latina hebbe quasi le
medesime controversie con la greca che ha havuto e ha ancora la toscana
colla latina; e se non fusse stato Cicerone, non so come si fusse ito la
bisogna, perché i Romani tenevano ordinariamente poco conto delle
scritture latine e molto delle greche; ma Cicerone, come si vede aperta-
mente sì altrove e sì in cotesti due proemii che voi allegati havete, hora
confortando i romani huomini a dovere romanamente scrivere e hora
riprendendogli e mostrando loro il loro errore (non altramente quasi che
il Bembo a' tempi nostri), le diede credito e riputazione e la condusse
finalmente colle sue divine scritture tanto in su, quanto ella o poteva o
doveva andare; e per questa cagione, cioè per esortargli e inanimirgli allo
scrivere latinamente, credo che egli quelle parole dicesse; e se pure le
disse perché così li paresse, io non posso, ancora che volessi, indurmi a
crederlo; vedete parole che m'escono di bocca e se io haveva biso-
gno di nuova protestazione; benché me n'usciranno delle maggiori.
Conte. Non dice egli ancora nel principio del primo libro delle
Quistioni Tusculane: sed meum semper iudìcium fuit omnia nostros aut
invenisse per se sapientius quam Graecos, aut accepta ab illis fecisse
meliora, quae quidem digna statuissent in quibus elaborarent
?
Varchi. Se egli intendeva di sé stesso, come con molti altri tengo
ancora io, se gli può credere ogni cosa, percioché alla divinità di quello
ingegno non era nulla nè nascoso nè faticoso; ma se generalmente, non
so che mi dire.
Conte. Credete voi che favellasse da buon senno, quando disse


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