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Vergilius Maro, Publius - Aeneis » Lando, Ortensio Paradossi - p. 264

Lando, Ortensio

Paradossi, cioè sentenze fuori del comun parere


Se essendo noi in una camera inchiusi stessimo ragionando della
miglior creanza ch'aver debba un cavaglier d'onore, o divisando
della riformazione del stato ecclesiastico, e venesse alcuno in fret-
ta picchiando la porta, e dandone nuova che gli nemici fussero già
dentro alii ripari, o vero che nelle vicine case fusse posto il fuoco,
non lasciando il divisare per dar soccorso a' bisognosi, e riparare
a' pericoli, non peccaremo noi gravemente? non diventareb-
be l'un di questi offizii del tutto vizioso? Sì sarebbe veramente.
Dicciamo ancora più oltre. Egli puose quattro vertù, cioè pru-
denza, giustizia, fortezza e temperanza, né si ricorda il stordito d'a-
ver scritto bruttamente fare chi pretermette nelle divisioni cosa ve-
runa. Oltre che noi veggiamo tutti li migliori filosofi undici da ne-
cessità astretti averne posto. Non le raccontare già per ora di una
in una, potendole ciascun vedere in Aristotele, e prima in Crisip-
po, in Dicearco, in Senocrate, in Teofrasto, e altri tanti di qualun-
que miglior setta. Andiamo più oltre. Nel quarto libro delle Di-
sputazioni Tuscolane
riprende orgogliosamente li dotti peripateti-
ci perché assegnarne le mediocrità delle passioni a noi sì
utilmente date, e senza le quali gli uomini possedere non possono
vertù alcuna, né si avede (il misero) che chiunque toglie le medio-
crità delli affetti, teglia le vertù, né ci rimanga più chi procuri di
sovvenir alla patria, lievasi l'amore a' figliuoli, non amansi più gli
amici, e molte altre cose oneste pretermettensi. Non saprei per mia
fé dir quanti brutti falli mi si scuoprino tutte le volte ch'io mi pon-
go a leggerlo, il che per non perdere in tutto il tempo faccio men
sovente ch'io possa. Mi pare pur strano veder in sì famoso scritto-
re una tanta negligenza, degna d'esser castigata non con
semplici rimprocci, ma con accerbe battiture. Ch'egli fusse come io
vi dico nel scriver trascurato non si creda a me, ma credasi a lui
stesso, il quale, essendo da' dotti amici corretto e ammonito, o
confessava l'errore nel quale era trascorso, transferendone la colpa
alla sua smemorataggine, o si scusava con l'addur qualche altro si-
mile a lui mentecatto. Il che in molti luoghi dell'opere sue appari-
sce, de' quali per confirmazione della verità basterammi al presen-
te recitarne uno, o ver dui, e così ammonire e diligenti lettori ad
osservarne quasi infiniti per l'opere sue sparsi. Dico adunque non


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