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Plato - Sophista » Zucchi, Giacomo Dei de' Gentili - p. 62

Zucchi, Giacomo

Discorso sopra li Dei de' Gentili e loro imprese


perché, come più volte habbiamo detto, sono state tante volte replicate da belli
ingegni, che qui non ha luogo più dilatione, basta bene che vogliano che fosse
ferita questa tanta Dea in una zinna da Ercole. Là onde mareviglia non è, se le
ricchezze et i Grandi con tanto mal viso veggono i miseri virtuosi, o alcuno che
con Ercole intenda. Portossi Ercole la spoglia del Leone in Cielo, e lì in vergogna
di Giuno risplende, se ben ella, dopo la pace fatta nel parentado, di che non vo-
lendo che la Virtù nuda restasse, per mostrarsi parca, di una spoglia di Toro, o
per dir meglio di Somaro, la fece adorna. A canto poi, cioè le due figure finte di
marmo, a man dritta è fatto Hebe, Dea della gioventù, sua figliuola e poi moglie
di Ercole; dall'altra banda la instabile Iride sua messaggiera. E questo hormai per
Giunone ci basti.

Vesta.

Ancorché, signor mio, non mi sia nascosto, e mille esempi addur ne potrem-
mo, quanto sia brutta e vitiosa cosa il voler por mano a quelle imprese dove la
difficoltà vince le forze, non ho potuto fuggire, spinto da leggierissima ancorché
occulta causa, che fra le tavolozze e pennelli non imbratti questa poca ma mal
avventurata carta. Né voglio che ci sbigottisca l'ostinatione della Fortuna, poiché
tanto hormai le sue velenose percosse provate habbiamo, che lieve cosa ci sarà, sì
come Apollo le Vacche o i Porci a governar ci conduca: Fortes fortuna adiuvat.
So che Momo levandosi in piedi cantava di Orlando, et noi con l'orecchie di piombo
aspettaremo il verno, che le adulatrici locuste crepino et in fumo si risolvino,
protestandoci sempre che non per far un libro, ma per chiarire il pensier nostro
circa alla nostra pittura habbiam fatto questo semplice discorso, indrizzandolo
solo a quelli amorevolissimi della mia professione, che con compassionevol animo
si degneranno nel riposo de' lor studii darli un'amorevole occhiata, supplicando
dall'altra banda i consumati nelle poetiche favole che, per non guastare essi il
gusto nella sontuosa mensa de' lor poemi, sì rozzo pomo non intromettino in tavola,
poscia che, senza guardare a regola o misura alcuna, né se una sillaba innanzi a
l'altra, o un gerundio sia in colera col supino, così poco penso, ci occupi, bastan-
doci dalli amorevolissimi soli esser intesi, come di già dicemmo; atteso che, dove
combatte la poesia co'l rasoio, mercé di chi n'è causa, non han luogo tante sincope.
Però, tornando a proposito, dico che non manco in questo che nell'altri quadri
si trovano variate opinioni intorno a Vesta. Diodoro Sicolo, trattando di essa,
afferma esser di Saturno figliuola, dandole Rhea per madre. Apollodoro al primo
libro, chiamandola Tellus, la fa madre di Saturno, della quale al quinto della
Eneida ne parla et afferma Virgilio. Ma perché non pigliamo un granchio a secco,
bisogna che ci ricordiamo che due Veste sono state e credute et adorate. La
prima è quella la quale è intesa per la terra, e questa è detta da' Gentili Gran Madre,
et particolarmente perché è tenuta madre di Saturno; l'altra Vesta poi è figliuola
creduta pure di Saturno, e questa è intesa per il fuoco; fu chiamata Vergine, et
sopra le Vergini applicata. Ovidio, parlando sopra di questa, dice: Nec tu aliud
Vestam, quam vivam intellige flammam, Nataque de flamma corpora nulla vides.

Atteso che, chi nella fiamma risguarda, certa cosa è, dice egli, che nulla effigie
vi scorge. Vergine è detta, poi che il foco, né manco la Vergine, niente concepe o
partorisce. In Egitto, in Atene, o in Delfo, in Ilio, secondo che Diodoro, Plu-
tarco e Strabone racconta, a questa gli era consecrato il foco, sì come finalmente
da' Romani, affermando Tito Livio che Numa Pompilio gli edificasse et consti-
tuisse un famoso Tempio e gli ordinasse le Vergini, quali di Vestali presero il
nome, che del sacrato et perpetuo foco la cura havessero.
Ma qui nasce un grandissimo dubio certamente, al quale non mi ci posso
accommodare, pensando in che modo sia cascato nell'animo di tanti grand'huomini
gentili che questa così santa e casta Deità, così da lor tenuta, l'habbino poi me-
scolata e confusa tanto con la lasciva Venere, sì come parlando di essa dicemmo;


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