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Vergilius Maro, Publius (Pseudo) - Catalepton » Boccaccio, Giovanni Geneologia degli Dei - p. 10v

Boccaccio, Giovanni

Geneologia degli Dei. I quindeci libri di M. Giovanni Boccaccio ... tradotti et adornati per Messer Giuseppe Betussi da Bassano


Cloto, Lachesi et
Atropos, figliuole di Demogorgone.
Cloto, Lachesi et Atropos, come di sopra dove si ha trattato del
Litigio, furono figliuole di Demogorgone. Ma Cicerone chiama que-
ste le Parche, dove scrive delle Nature dei Dei, et dice che furono figliuo-
le dell'Herebo et della Notte. Nondimeno io più tosto m'accosto a Theo-
dontio, il quale dice quelle essere create con la natura delle cose; il che
molto più pare al vero conforme, cioè loro essere state coetanee alla
natura delle cose. Et queste istesse dove di sopra Tullio le chiama, in singolar, Fato, facen-
dolo figliuolo dell'Herebo et della Notte, io più tosto, havendo rispetto a quello che vien
scritto del Fato, accioché dopo seguiti figliuolo di Demogorgone, chiamerollo con questo
nome, che è in loco di Parche. Seneca poi nelle Pistole a Lucillo chiama queste Fati, cittando
il detto di Cleante, così dicendo: I Fati traheno quello che vuole et non vuole. Il che circa
non solamente descrive il loro ufficio, cioè esse sorelle guidare il tutto, ma ancho constrin-
gere; non altrimenti che se di necessità occorra il tutto. La qual cosa molto più aperta-
mente pare che Seneca Poeta Tragico tenga nelle Tragedie, massimamente in quella il
cui titolo è Edippo, dove dice: Dai Fati siamo constretti ai fati credere. Non ponno le sol-
lecite diligenze cangiare li stami del torto fuso. Ciò che patisce il genere mortale, et ciò
che facciamo, la conocchia rivolta alla dura mano di Lachesis, rivolge dal cielo, et serba
i suoi decreti. Tutte le cose vanno per troncato sentiero; et il primo giorno ha dato l'e-
stremo. Non le è concesso da Iddio rivolger quelle cose le quali congiunte per sue cagioni
correno. Va a colui l'ordine immobile, a cui istima senza nessuna preghiera che noccia
haver temuto lui per molte cagioni. Molti vennero al suo fato, mentre temeno i Fati;
et
quello che segue. Il che pare ancho che Ovidio giudicasse, quando nel maggior suo volu-
me in persona di Giove dice a Venere:
Tu sola pensi l'invincibil fato
Poter cangiare; se ben entro entrassi
Da le sorelle; dove tu vedrai
Le stanze de le tre d'una gran mole,
Et d'aere i palchi, et di ben fermo ferro.
I quai non temon, né di ciel concorso,
Né di fiume ira, né rovina alcuna;
Così sicuri sono, et ancho eterni
Ivi tu troverai scolpiti i fati
De la prosapia tua, di dur diamante.

Per le quai parole, oltre già la falsa openione, si può considerare queste tre sorelle essere il
fato; et come che Tullio habbia distinto i fati in Parche et Fati, volendo più tosto, co-
me istimo, con la divinità dei nomi dimostrar la diversità degli uffici che delle persone.
Ma noi di questi tre, ultimamente da esser ridotti in uno, quello che ne sentano alcuni ve-
deremo. Di sopra habbiamo detto queste essere state dedicate dal padre ai servigi di Pane,
et ne habbiamo dimostrato la cagione. Fulgentio poi dove tratta dei Mitologii dice quel-
le essere state attribuite ai voleri di Plutone dio degl'Inferi, et credo affine che sentia-
mo le attioni di queste solamente impacciarsi d'intorno le cose terrene, perché Pluto s'inter-
preta terra. Et dice il medesimo Fulgentio Cloto essere interpretata Evocatione, percioché,


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