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Alexander Aphrodisiensis - Quaestiones » Boccaccio, Giovanni Geneologia degli Dei - p. 185r

Boccaccio, Giovanni

Geneologia degli Dei. I quindeci libri di M. Giovanni Boccaccio ... tradotti et adornati per Messer Giuseppe Betussi da Bassano


fanciulla invaghita dal lucente splendore si chinò a prenderlo. Indi con la velocità sua
di novo non pure aggiungendolo, ma trappassandolo, Hippomene medesimamente gittò
il secondo, per la cui vaghezza troppo più splendente della prima la giovane mossa si
diede a volerlo raccorre; onde l'inamorato celerando i passi pigliò un poco d'avantagio,
ma tosto da quella gli fu tolto. Di che veggendo egli hoggimai essere vicino il segno do-
ve haveano ad arrivare, gittò il terzo (del quale la vergine, più ingorda che degli altri
due primi, con animo di tosto trappassarlo si chinò a prenderlo<)>, ma egli intanto con ve-
locità aggiunse alla disiata meta, là onde la donzella restata vinta divenne sua moglie.
Con la quale ritornando lieto verso la patria et essendo impatiente dell'amore, posta da
canto la rimembranza del ricevuto dono da Venere nel boscho di Cibele condusse quel-
la, et ivi seco si congiunse. Di che, o per sdegno di Venere o della madre dei dei, avenne
che gl'infelici amanti si cangiarono in Leoni, et furono aggiunti al carro di Cibele.
Sotto la cui fittione può nascondersi senso tale. Primieramente, se nelle donne è alcuna
ostinata durezza, quella si può con l'oro et con doni rompere, attento che naturalmente
tutte sono avare et ingorde dell'oro. Sono poi detti amendue essersi conversi in Leoni
perché nel bosco di Cibele si congiunsero insieme, cioè abondarono in delitie humane; on-
de perciò s'inalzarono et così furono cangiati in Leoni, essendo i Leoni superbi anima-
li. Et poi all'incontro furono aggiunti al carro di Cibele, cioè in processo di tempo ammae-
strati dalla natura delle cose; perché tutti siamo inchinati alle terrene leggi, conciosia che terre-
namente viviamo; onde benché diventiamo superbi et altieri, alla fine siamo ridotti in terra.
Pelasgo, ventesimono-
no figliuolo di Nettuno.
Pelasgo secondo Theodontio fu figliuolo di Nettuno; ma Isidoro dove
tratta delle Ethimologie dice ch'egli fu figliuolo di Giove et Laris-
sa. Nondimeno, perché si vede che Theodontio è stato molto sottile ri-
cercatore di simili cose, ho giudicato essere da credere a lui. Questi
adunque regnò in quella parte della Grecia che poi da Arcade figliuo-
lo di Calisto fu detta Arcadia, et secondo Theodontio dal nome suo
fu chiamata Pelasgia, et nell'Asia esservi i Pelasgi; i quali contra Greci favorirono i
Troiani, sì come nella Iliade mostra Homero. Ma questi Pelasgi hebbero il nome da Pe-
lasga, donna greca, la quale dicono con molta gente in Asia esser passata, et haver edifi-
cato una città chiamandola dal nome suo Pelasgia; et indi essere stati chiamati Pelasgi
quelli che sono appresso Licia. Altri poi tengono il contrario, cioè Pelasgo essere stato
un Re in Asia et da lui essersi dimandati i Pelasgi; et indi quella donna Pelasga, dove
poscia furono i Pelasgi, d'Asia in Grecia essere poi passata, dove occupato il paese impo-
se il nome ai Pelasgi.
Nauplio, trentesimo fi-
gliuolo di Nettuno, che generò Palamede.


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