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Plato - Respublica » Boccaccio, Giovanni Geneologia degli Dei - p. 15r

Boccaccio, Giovanni

Geneologia degli Dei. I quindeci libri di M. Giovanni Boccaccio ... tradotti et adornati per Messer Giuseppe Betussi da Bassano


questa nella prima paura picciola, et così è. Imperoché, come che i fatti siano grandi, da'
quali nasce, pare c'habbia principio da una certa tema degli ascoltanti, attento che sempre
siamo mossi dal primo sentire di alcuna cosa; et se ci piace habbiamo paura che sia falsa,
se poi ci spiace, medesimamente temiamo che sia vera. Poi s'inalza in aere, cioè vola in
ampliarsi per lo parlare delle genti; o vero si caccia tra gli huomini mediocri, et indi va
per la terra, cioè tra il vulgo et i plebei. Allhora poi nasconde il capo tra i nuvoli, quan-
do si trasferisce ai Re et ai maggiori. È ancho veloce d'ale perché, com'egli istesso di-
ce, nessun'altra cosa non è più veloce. L'afferma gran monstro et horribile per rispetto
del corpo che a lei descrive, volendo in questo che tutte le sue piume (chiamandola uccello
per lo suo veloce movimento) habbiano effigie d'huomo, non ad altro fine eccetto che per-
ciò s'intenda che ciascuno che parli d'alcuna cosa aggiunga una penna alla Fama; et così
di molti, essendo molte le piume degli uccelli, et non di poche si fa la fama. Overo più to-
sto chiama questa horribil monstro perché quasi mai non può essere vinto. Conciosia che
quanto più alcuno cerca opprimerla, tanto più diventa maggiore; il che è cosa monstruo-
sa. Dice appresso tutti i suoi occhi essere vigilanti, attento che la fama non risuona se non
da persone vigilanti. Percioché se il parlamento sta queto et dorme, la fama si converte in
niente. Che poi la notte voli in mezzo il cielo, il dice perché spessissime volte s'è ritrova-
to la sera essere avenuto alcun fatto che la mattina ancho in lontanissime parti si ha sapu-
to, non altramente che se la notte fosse volata. Overo, che dice questo affine di mostrare la
vigilanza dei cianciatori. Indi fa che il giorno ella sieda guardiana, per dimostrare che
per le sue nove si mettano guardie alle porte delle terre et delle città, et sopra le torri ad
eccittare i guardiani, overo a far la scorta di lontano. Et non distinguendo il falso dal
vero, è contenta rifferire tutte le cose per vere. La cui stanza appresso nel suo maggior
volume così descrive Ovidio:
Tra terra mare, et il celeste clima
Vicino a mezzo il mondo è un ampio loco
Da cui si vede quanto in quello è posto,
Benché lontani sian tutti i paesi;
Dove ogni voce penetra le cave
Per fino al cielo. Ivi la Fama tiene
Il seggio suo, e in quella roccha elesse
Entrate innumerabili, et aggiunse
Mille forami ai tetti, et non rinchiuse
D'alcuna porta i muri; anzi dì e notte
Sta sempre aperta; et tutta è fabricata
Di bocche risonanti; et tutta freme,
Et riporta le voci, e ogn'hor palesa
Quello ch'ell'ode. Entro non v'è riposo,
Né alcun silentio da nessuna parte
Non solo v'è gridar, ma un mormorare
Di bassa voce, come propio quello
Che da l'onde del mar suol esser fatto;
Se di lontano alcun fremer lo sente.
Overo qual'è il suono, alhor che Giove
Fende l'oscure nubi, onde si fanno
Gli estremi tuoni, et occupa i theatri
La turba; e il liggier vulgo vassi, e viene
Insieme seminando varie cose;
Et vere, et false; et van volando insieme
Mille parole da rumor confuse,
Di quali empiono questi coi parlari
L'orecchie vuote. Rifferiscon questi
Le cose udite ad altri, et cresce appresso
La misura del finto, e il novo auttore
Sempre n'aggiunge alcuna a l'altre intese.
Ivi sta la credenza, ivi l'errore


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